giovedì 6 novembre 2008

Il suo presidente


Foto di New Hempshire Pubblic Radio
Altra lezione importante che ci proviene dagli Stati Uniti: Obama ha vinto, McCain ha perso. L'uno aveva tutte le mie simpatie, l'altro molte meno. Se il primo mi sembrava (e mi sembra) più credibile, nuovo, carico, l'altro lo consideravo (e continuo a considerarlo) vecchio, fiacco, inadatto a tempi come questi.
Se, dunque, la mia personalissima bilancia pesava tutta a favore di Barack, ho potuto comunque apprezzare nel suo sfidante una dote preziosa e rara in Italia: la lealtà.
McCain ha perso e lo ha fatto in modo rovinoso, ma ha avuto la franchezza e la coerenza di ammetterlo, addossandosi tutte le colpe. Non solo: nel suo primo discorso dopo aver tagliato il traguardo per secondo, si è rivolto ad Obama con parole nette e leali, per l'appunto. Lo ha chiamato "my president", "il mio presidente". Dovrebbe essere un atteggiamento normale, ma visto che di buon senso nel mio paese ce n'è poco, colgo quelle poche parole un significato stranamente pesante: c'è la fiducia anche al di là della sconfitta, apertura e disponibilità anche se su fronti avversi. Una mano tesa dopo una gara scorbutica, ostica, faticosa. Complimenti, davvero.
Da noi la normalità diventa rarissima: ecco perché quando Berlusconi perde le elezioni denuncia brogli, passa settimane a ricontare le schede, non rivolge mezza parola al rivale. Ecco perché quando "un comunista" viene eletto al Quirinale si sente soffocare, impaurito forse dall'arrivo di una nuova Armata Rossa. Ecco perché se qualcosa va male, è sempre stato qualcun'altro a causare il danno.
Come vorrei che questa idea di normalità fosse "normale" anche qui. Più che la democrazia, non era meglio se gli Stati Uniti avessero iniziato ad esportare franchezza e sincerità come quelle di McCain?

1 commento:

nic ha detto...

Su questo argomento, puntuale e divertente come sempre, è arrivato il commento del grande Michele Serra. Nella sua "Amaca" del 7 novembre scriveva così:

Tra le tante emozioni dell' Obama Day, rimane forte l' ammirazione per la lealtà e la signorilità di McCain. Si dice sia frutto di un' identità nazionale molto più solidale e unita della nostra, ma non ne sarei così certo: non risulta una grande condivisione di identità tra un reazionario dell' Alabama e un attivista per i diritti civili, o tra Bruce Willis e Woody Allen. E difatti buona parte della folla repubblicana, sotto il podio, ha fischiato le parole pacificatrici di McCain. Più probabile che McCain sia conscio delle responsabilità di un leader, che non consentono slittamenti verso gli umori più foschi del proprio elettorato: il McCain che leva il microfono alla sua supporter razzista impedendole di insultare Obama è lo stesso McCain che onora il suo nuovo presidente. In chiave nostrana, più che lamentare l' assenza di un Obama, è l' assenza di un McCain che dovrebbe preoccuparci. La leadership della destra italiana (con pochissime eccezioni) non solo non smorza, ma al contrario esalta molti dei peggiori umori del suo elettorato, e a volte (vedi Berlusconi) li innesca. È una classe dirigente spesso più estremista dei suoi elettori, in larga parte moderati. Nella destra italiana le parti sono invertite: dovrebbe essere un supporter di destra savio e responsabile a dover levare il microfono a Berlusconi o a Bossi.