venerdì 25 gennaio 2008

Verba volant, Wiki manent


Foto di soozika
Mi è tornato alla mente un piccolo ed insignificante aneddoto della mia infanzia; nulla di che, però mi ha dato modo di pensare a quanto velocemente sia cambiato il mondo intorno a me, a noi, alla nostra società. Quali accelerazioni ha avuto e quali cambiamenti ha apportato.
Mondiali di calcio del 1994. All'epoca non solo ero malato di calcio, ma sentivo quasi il bisogno di fermare in qualche modo quei momenti magici e le imprese della nostra nazionale. Mi ero messo così a scribacchiare un quadernino in cui c'erano tutte le nazionali partecipanti, tutte le formazioni, tutti i risultati. Non solo. Il 17 luglio '94 l'Italia è andata a giocarsi la finale. Capendo l'importanza (chissà, irripetibile, pensai all'epoca) dell'evento, decisi a pochi minuti dall'inizio della gara di prendere un foglietto bianco e con un pennarello azzurro vi segnai le formazioni che di lì a poco sarebbero scese in campo. Ripromettendomi di segnarci il risultato. E lo feci, benché negativo. Poi misi via quel foglietto, lo nascosi nell'armadio.
Chissà che fine han fatto, quel quadernino e quel foglietto...
L'idea, all'epoca, doveva esser quella di lasciare una traccia, di ricordarsi quell'evento, di poter andare a ritrovare un giorno quei dati. Il problema, allora, era che se non avevi sottomano un libro o una qualsiasi altra fonte, certe informazioni non le avevi affatto. Ti erano sfuggite e tanti saluti.
Non avevo la benché minima idea che, in un domani neanche troppo distante, tutto sarebbe cambiato.
Sì, perché oggi non avrei più bisogno di quel foglietto. Mi basta fare un clic qui. Ed il gioco è fatto: dispongo delle stesse informazioni scritte col pennarello azzurro in quel caldo giorno di tanti anni fa.
Il nocciolo è questo: ognuno di noi, tramite i cellulari, tramite i computer, tramite internet ed in particolare attraverso un prodotto della rete straordinario come Wikipedia, dispone di una sorta di "estensione di memoria". Non abbiamo necessità di ricordare, né di appuntarci ogni singola cosa, né di avere tra le mani una testimonianza diretta di ciò che non c'è più. Se vogliamo ritrovare qualcosa, bastano pochi passaggi ed il problema è risolto.
Il fatto è: tutto ciò è solo comodo, o può essere pure un po' asettico, vuoto, sterile? Vale più un pezzetto di carta scritto da un bambino di dieci anni, o una sconfinata enciclopedia on-line? Affidarsi a strumenti nuovi può cambiarci, mutare la nostra struttura?

lunedì 21 gennaio 2008

Voglia di parole


Foto di Kerotan
Da piccolo, quando andavo ai giardini pubblici, una cosa su tutte, in particolare, attraeva la mia attenzione: le scritte lasciate sulle panchine, sui muri o sui giochi per bambini. Anche ora che sono cresciuto mi attraggono in maniera quasi irrefrenabile. Mi danno modo di immaginare: chi sarà passato di qui? Che storia ha alle spalle? Perché avrà sentito la necessità di lasciare una traccia? Cosa provava dentro sentendo di dover esternare qualcosa?
C'è chi inorridirà di fronte a queste considerazioni, credendo (a ragione) che ciò che è di tutti va rispettato e non maltrattato. Giusto, ma trovo bellissima questa voglia di parole, di parlare, di lasciar correre libera, senza briglie la comunicazione. Ciò che uno si sente dentro. Difficilmente quelle scritte sono lì tanto per fare, fini a loro stesse: dietro si cela una storia, la necessità forte di esternare al mondo qualcosa. Un amore, un dolore, un sorriso, una lacrima. O, perché no, l'incapacità di comunicare. Anche quella può essere scritta su una panchina.
Ora che conosco questi temi un po' più da vicino, mi rendo conto che questa voglia rimane. Viva ma non immutata: forse le classiche frasi d'amore sullo scivolo, o i nomi di due innamorati incisi su un albero esistono ancora. Ma le vedo molto meno.
Vedo chiaramente come "nuovi spazi bianchi" vengano puntualmente riempiti, se c'è qualcuno che vuole dire qualcosa: basti pensare alle frasi vicino agli avatar su Messenger, ai messaggi scambiati nei commenti ai file di eMule, alle tagboard sui forum, sui siti web, sui blog. Dove c'è possibilità di lasciare una propria traccia, c'è qualcuno che ha qualcosa da dire. E che vuole riempire quello spazio bianco con parole proprie.
Trovo stupendo, poetico tutto questo. Se solo ripenso a quei giardini, al verde degli alberi bagnato dal sole fioco del tardo pomeriggio, a quelle panche e a quei tavoli tutti scribacchiati quasi mi commuovo.
Mi domando però: come mai, allora, spazi più importanti, più ampi, più strutturati nei quali si fa comunicazione, non vengono riempiti a dovere? Perché la televisione, strumento utile, che non aspetta altro se non di esser riempito di belle parole, rimane un recipiente vuoto? Lascio cadere la maschera e parlo chiaro: perché si concede spazio (e milioni di euro) a programmi come 'La vita in diretta' e 'Uomini e donne'? Perché?

venerdì 18 gennaio 2008

Oro colato


Foto di xevialmanza
Io, lo ripeto, sono un povero ignorante. Che cerca di guardasi intorno e capire. Ci sono tanti ambiti che mi andrebbe di comprendere meglio: uno di questi è l'economia, di cui so meno di niente.
Oddìo, forse una cosa la so: se un bene è di larghissimo consumo, se la domanda è alta allora ci saranno più imprese che vorranno produrlo, più concorrenza. Risultato: il prezzo di quel bene dovrebbe abbassarsi. "Dovrebbe". Perché vedo che per la benzina le cose non funzionano così.
Come mai tutto ciò? Da cosa dipende? Dove poter cercare le risposte a questa domanda?
Intanto, attendendo numi su questo punto, faccio una considerazione: come si può mettere sul mercato un bene e poi, di giorno in giorno, farne salire il prezzo? Ben sapendo che la società ha deciso di investire molto sul quel bene: capiamo tutti che senza benzina, oggi come oggi, non andiamo da nessuna parte. Forse consumarne un po' meno non ci farebbe poi tanto male, ma è chiaro che l'importanza della benzina stessa è indiscutibile.
Siamo alle solite, allora. L'economia non segue più la società, non l'aiuta, pensa solo a se stessa. Senza capire che dietro le imprese alla continua ricerca di profitto ci sono uomini. Che, in quanto tali, dovranno un giorno lasciarli, quei benedetti profitti. Peccato che ci sia un mondo ed una società che vivranno a lungo, molto a lungo: se non si è in grado di investire ora, subito, nella società, se non si lascia "qualcosa" in eredità all'ambiente umano, credo che il collasso sia più che imminente. L'economia deve smetterla con questa voglia di infinito, con questa smania di onnipotenza. I signori che la governano, ad ogni livello, dovrebbero aprire gli occhi.

giovedì 17 gennaio 2008

Tra le grida, il silenzio


Foto di Juanjo Fernàndez
Il fatto che il Papa abbia preferito, o sia stato invitato, o sia stato costretto (si legga come meglio si crede) a non essere presente all'inaugurazione dell'anno accademico all'Università "La Sapienza" di Roma mi rattrista molto. Non tanto come credente, perché le questioni importanti sono altre. Quanto più come persona. Come persona che si guarda attorno e cerca, non senza fatica, di capire gli altri, la società, il mondo.
Quello dell'ascolto dovrebbe essere l'atteggiamento più naturale, più ovvio. Invece in tanti casi (questo in ultima battuta) ci si ignora. Quando va bene. Si alzano barricate, quando va male. Mi domando: a che pro, tutto questo?
Talvolta credo per paura. Perché le contaminazioni non entrino nella propria vita, nel proprio gruppo d'appartenenza, nelle istituzioni che ci sentiamo di sostenere.
Oppure, probabilmente, perché si ha un'immagine sbagliata dell'altro. Lo dicevo qualche post fa: sono le percezioni, le rappresentazioni che ci aiutano se non c'è una conoscenza piena. Purtroppo però, molto spesso, esse sono estremamente grossolane: tendono a ridurre la complessità, focalizzando su un solo aspetto. "Tizio è così, la Chiesa è cosà". Punto. Sono le definizioni che ci rovinano. E invece basterebbe un po' più di voglia di comprendersi e di conoscersi.
E questo è il tipo di percezione che i giovani de "La Sapienza" (alcuni, non tutti) hanno della Chiesa. Qui la fede non c'entra. C'entra il modo in cui la si rappresenta. C'entra la comunicazione.
C'è una comunicazione sbagliata. O forse manca del tutto. "Lack of communication", in inglese. Ecco perché si fa così fatica a capirsi.
Allora qui il problema si amplia, e non riguarda solo la Chiesa. Provo a districarlo sotto questo profilo: le istituzioni, su tutte la politica ma anche la Chiesa stessa, sono continuamente sotto l'occhio vigile dei media. I quali offrono loro degli spazi. Peccato che non li sappiano riempire a dovere. In un epoca in cui sappiamo tutto di tutti, in cui dagli ambiti più disparati della società sgorgano quantità quantità immani di informazioni, dei "centri di potere" e delle istituzioni non sappiamo nulla. O comunque, poco. Gli vengono offerti spazi, sì. Ma poi come li riempiono? Con qualche incomprensione, col solito chiacchiericcio, con qualche grida e qualche schiamazzo quando i toni si fanno accesi. Se togliamo tutto questo, c'è altro? No, il silenzio.
E' come se, continuamente, avessimo sotto gli occhi, nelle orecchie, tutt'attorno solo la parte peggiore delle istituzioni. Ce le rappresentiamo tramite persone, eventi, discorsi che rappresentativi non sono. O meglio, non del tutto.
"Politica" non sono solo le gazzarre in Parlamento. C'è anche il sindaco di paese che sa darsi da fare per far vivere la sua comunità più serena. Anche quella è "politica".
"Chiesa" non è solo il Papa che si affaccia per l'Angelus la domenica. Non è solo Roma, Città del Vaticano, San Pietro. Non solo le dichiarazioni di Bagnasco, Ruini, o chi per loro. C'è anche la parrocchia che riesce a togliere i ragazzi dalla strada e che prova a dar loro un futuro. Anche quella è "Chiesa".
Perché nessuno ne parla? Chi decide qual'è la faccia migliore della medaglia? Perché oltre le grida, non c'è niente?
Io credo che ci sia qualcosa, invece. Che quel silenzio brulica, si muove, è vivo. Ed è la parte più bella. Solo che nessuno vuole raccontarla.

P.S.: mi scuso per la lunghezza del post, ma è un argomento, questo, che ho a cuore in maniera particolare. E che non sarei riuscito a liquidare in poche parole...

mercoledì 16 gennaio 2008

Vuoto etico


foto di ilConte
Tempi intricati, questi. Giusto oggi il Ministro della Giustizia Mastella si è dimesso. Piccolo (o grande?) evento che testimonia quanto la nostra politica non funzioni. E la nostra società, neppure.
Sono in tanti a credere che siano l'uno specchio dell'altra. Il problema è che, scoprendosi l'un l'altro parecchio malandati, non si fa nulla per invertire la rotta.
Personalmente, sento la mancanza di una morale, un vuoto etico che vorrei tentare di sviscerare. Di capire da dentro, per comprendere come mai siamo finiti così in basso. Ed al contempo apprezzare il bello, il corretto, il giusto. Concetti così facili da raggiungere, eppure così distanti in tempi come questi.
Un primo punto su cui vorrei soffermarmi è la necessità di ridare a questo paese una classe politica (dal sindaco di paese, all'onorevole che siede in Parlamento) credibile. Nuova. Non tanto, non solo, nei volti: quanto più nel modo di fare.
Prendiamo ciò che va dicendo in giro da mesi Beppe Grillo: sembrerebbe la cosa più normale della terra, ed invece da noi la necessità di avere un "Parlamento pulito" deve diventare battaglia, occorre la mobilitazione di migliaia di persone per poterlo ottenere.
Non tutto ciò che dice e fa Grillo mi convince, e forse un giorno ne parlerò. Però questo è un punto nodale, una causa che mi sento di sposare in tutto e per tutto: come possiamo pensare di crescere, di vivere nel bene comune se "i nostri dipendenti" non sono persone rette, oneste, che operano negli interessi degli altri? Come possiamo pensare di avere in Parlamento persone che hanno problemi (più o meno seri) con la giustizia?
I rischi nell'accettare questa situazione sono gravissimi. Si rischia di perdere il senso vero del "fare politica". Ed al contempo dell'"essere comunità". Se accettiamo l'idea che chi è al potere, chi ci rappresenta, ha agito (o continua ad agire) contro le regole e contro il volere popolare mi domando dove potremo andare a finire...
Mi sembra di dire le cose più ovvie del mondo. Di ricomporre un puzzle di pochissimi pezzi. Eppure in Italia c'è bisogno anche di questo. Altrimenti quel vuoto etico rischia di diventare una voragine dalla quale risulterebbe impossibile venir fuori.

martedì 15 gennaio 2008

Quando la comunicazione funziona


Rileggendo il primo post sul tema della comunicazione, mi sono reso conto di non aver sviscerato in tutto e per tutto l'argomento. Mi sono soffermato con troppa enfasi sui risvolti negativi e troppo poco su quelli positivi.
Le mie considerazioni, che continuo a ritenere valide, tendevano a vedere "il bicchiere mezzo vuoto". Ma ora, visto che è mia intenzione lasciare certe tematiche sempre aperte ed in evoluzione, ho pensato che forse è il caso di osservare anche l'altra metà del bicchiere.
Quando la comunicazione è ben fatta, quando c'è trasmissione di informazioni utili, quando c'è la possibilità di mettere realmente in contatto realtà diverse. Su questo, oggi, vorrei soffermarmi.
Se sfruttati a dovere, i mezzi di comunicazione possono diventare dei veri e propri "relè", strumenti di unione, di comprensione sempre più approfondita.
Penso alle istituzioni, alle aziende, ai servizi che si mettono in comunicazione con gli utenti, meglio: con le persone, tramite pannelli, schermi, siti internet. Se curati e di facile accesso, essi potranno permettere di risparmiare soldi all'ente che li gestisce e tempo a chi è in cerca di informazioni.
Più nello specifico credo sia importante, attraverso gli strumenti più disparati, che chi fornisce servizi si faccia sentire presente, apra idealmente le proprie porte, si faccia conoscere dalla gente. Il tutto, ovviamente, con l'intenzione di offrire anzitutto la sincerità e la trasparenza.
Altrimenti, si ricade in quello strano e perverso gioco di cui parlavo qualche giorno fa: spesso chi comunica, chi fa informazione tende ad offrire un ventaglio di proposte assolutamente inutili. Alcune delle quali allarmanti, destabilizzanti. Che mettono in contatto con un mondo distante, non nostro, del quale si ha paura perché impossibile da conoscere in profondità. Parlare di qualcosa per coprire qualcos'altro.
Spero, in un giorno neanche troppo lontano, di riuscire a vedere la parte mezza piena del bicchiere. Una comunicazione che funzioni, che sia funzionale, che rappresenti uno strumento importante.

P.S.: mi sento di consigliare una lettura molto importante sul tema, come "L'impronta del sociale", di Lella Mazzoli (edito da Franco Angeli). Un manuale di scienze della comunicazione, molto piacevole ed interessante.

lunedì 14 gennaio 2008

La mente o il cuore


Una volta mi facevo meno domande. Ora forse me ne faccio anche troppe. Magari non giungo a capo di nulla, però continuo a farmele.
Lo scoglio su cui più frequentemente vado a sbattere, nel tentativo di capire qualcosa di più del mondo e di me stesso, è il seguente: mi sono reso conto che per conoscere ciò che hai attorno, la tua "porzione di mondo" devi vedere, devi capire, devi percepire, devi informarti, riflettere, confrontarti, immaginare. Lasciarti guidare dalle emozioni ed a tempo stesso tentare di capire.
Bisogna, dunque, in qualche modo avere una base solida costruita per te da altri. Ma a tempo stesso non dimenticare che anche ciò che c'è dentro di te è importante. Le emozioni non mentono. Ma possono fornirti una visuale che è solo la tua. Migliore, peggiore, comunque difforme dall'oggettività. Ammesso che essa esista.
La Verità, credo che appartenga solo ad una grande persona vissuta duemila anni fa (via, verità, vita...). Ma il nostro mondo, diventato di colpo così ampio, ha tante piccole verità. Tutte con la "v" minuscola. Ogni persona ne porta con se un piccolo pezzo, una briciola. Sempre giusta. Sempre discutibile, a tempo stesso. Ma, comunque, da dove nasce? Cosa guida quella verità? La mente o il cuore?
Mi domando perciò come si possano equilibrare le due cose. Il cuore è meglio della mente? Oppure il cuore mente? Come venirne fuori?

domenica 13 gennaio 2008

Arriva un bastimento


Torno sull'emergenza rifiuti. Debbo ammettere che si tratta di un dramma che offre diversi spunti di riflessione.
Per tentare quantomeno di alleviare la crisi, l'intervento più ovvio ed immediatamente attuabile è stato quello di prendere 'a munnezz' e portarla a smaltire in altri siti sparsi lungo tutto lo stivale. Visto che siamo una nazione, un unico paese, un grande e complesso organismo che difficilmente può crescere se una sua parte, per qualsiasi ragione, si ammala... ecco, trovo difficile capire come in tanti si siano opposti alla strategia intrapresa.
La nave di rifiuti sbarcata in Sardegna è stata accolta fra sassate e disordini. Capisco, può non far piacere. Ma se ognuno continua a curare il suo orticello senza accorgersi di ciò che accade agli altri, è molto complicato che noi, come paese civile, si possa crescere.
Per non parlare, poi, della reazione che il nord - meglio, una parte del nord - ha avuto al solo sentire l'idea di dover smaltire l'immondizia della Campania. Ottima la risposta, ad esempio, che ha avuto 'il Giornale': "I loro rifiuti? A casa nostra". Così titolava l'organo ufficiale del centrodestra. Senza accorgersi che il parlare di "loro", contrapposto a "noi", rappresenta una gaffe dalle venature razziste difficilmente perdonabili. Non oso pensare, quale possa essere stata l'opinione di un'altra testata moderata ed educatissima come 'la Padania'. Ripeto, la soluzione può anche non essere sposata in tutto e per tutto. Ma certi toni, certi proclami sono abominevoli.
All'improvviso ci siamo ritrovati intolleranti anche fra di noi. Di colpo tornano i pericoli provenienti dal sud, dal mezzogiorno, dai "terroni". Ed allora meglio chiudersi, meglio barricarsi, meglio difendersi e serrare le fila fra di noi. E' una sindrome da NIMBY. Ognuno pensi al proprio territorio, alla propria città o quartiere. E ai propri problemi. Che sono già tanti e nessuno vuole accollarsi quelli altrui.
Ripeto: così non si va da nessuna parte. Non voglio scadere nel buonismo peloso né nella carità a tutti i costi. Ma i drammi, nel mondo né tanto meno in Italia, in Francia, in America, ovunque, non hanno provenienza, né colori, né differenze.
Solidarietà. Quanto basta. Neanche troppa. E i problemi, credo, si risolveranno.

sabato 12 gennaio 2008

Una volta il calcio era più bello


Mi pare di capire che oggi riprende il campionato, dopo la pausa natalizia. Non che la cosa mi interessi troppo. Da diversi anni il calcio, questo calcio, il nostro calcio non mi piace più. Fino a non molti anni fa era una passione. Per non parlare di quando ero poco più che un bambino...
Spesso mi ritrovo a pensare che tutto ciò che riaffiora dai miei ricordi, compreso il calcio, è ricoperto di magia.
Ma in questo caso non è così. O meglio, non solo. Una volta il calcio era più bello perché imperfetto, perché verace, perché vicino alla gente. Certo non privo di scandali e loschi traffici sotto banco. Ma lo percepivo come più vivo ed appassionante.
Oggi si è trasformato in business, in un mezzo per far veicolare sponsor, pubblicità, denaro. Un mercato in continua evoluzione che, per la sua frenetica voglia di crescere e di visibilità, si sta giorno dopo giorno allontanando sempre più da quei sentimenti che lo rendevano irresistibile: era una passione, un gioco.
Là dove arriva il denaro la passione si perde. Se il denaro esagera, se porta troppe telecamere, troppi sponsor, troppi interessi finisce per appiattire tutto. Il calcio ha venduto l'anima al diavolo. Finendo per morire. Molto, molto lentamente. Non ce ne accorgiamo, ma la fine è arrivata da un pezzo.
Ne è la prova il calo di abbonamenti alle stramaledette pay-per-view, il crollo dell'interesse per tutti quei programmi (soprattutto "in chiaro") che discutono di calcio, la cancellazione di monumenti quali "90° Minuto".
Una volta il calcio era più bello. Gli stadi pieni. Quei fogli di Gazzetta che, letti e riletti dentro i bar, a fine giornata diventavano sottili come carta velina. La schedina. Platini, Maradona, Van Basten, Matthaus. Le maglie di cotone pesante sempre uguali. I pantaloncini sempre un po' troppo corti. Gli arbitri in nero. Giampiero Galeazzi (più magro), Tonino Carino da Ascoli (più giovane), Paolo Valenti (sempre uguale a se stesso). Quelle domeniche pomeriggio, sul tardi, in cui, fra l'odore dei panni puliti e la minestrina che iniziava a bollire, tutto si bloccava per "vedere i gol".
Lontani ricordi. Peccato.

venerdì 11 gennaio 2008

Il regno dell'assurdo


Pomeriggio di ieri. Lezione di sociologia politica. L'argomento della discussione erano le elezioni del 2006. Per poter entrare meglio nell'argomento, è stato necessario per la professoressa fare un breve excursus sul nostro sistema elettorale. Sul ritorno al proporzionale dopo dodici anni di maggioritario.
Poche parole, semplici, che hanno finalmente chiarito un punto del nostro sistema di voto che, per ignoranza o per poca voglia di informarmi, non avevo ancora ben chiaro.
Di tutto il ragionamento, un punto mi ha fatto riflettere: sapevo benissimo che la "porcata" imbandita prima delle elezioni 2006 ha creato solo instabilità. Solo non mi ero mai soffermato a capire quanto assurda e tremenda potesse esser stata questa scelta politica.
"Alle elezioni per il Senato il conteggio è fatto su base regionale con premio di maggioranza. Può accadere quindi che il numero effettivo di voti non corrisponda a quello dei seggi." A queste parole mi sono bloccato. Ho pensato: "Ma di che cazzo stiamo parlando?". Perché questi raggiri, queste pastette, questi labirinti? A che pro?
Ho avuto la netta sensazione di abitare nel regno dell'assurdo, in un paese dove le cose potrebbero essere semplici e chiare, se solo lo si volesse. Ed invece... puff! Magia. I voti non sono più voti. Le poltrone in Parlamento sono decise con metodi cervellotici. Niente va come sarebbe naturale che andasse.
Che tristezza. Che tristezza dover vedere la faccia della professoressa quasi sconsolata, dover allargare le braccia come a dire: "sì, è assurdo, ma è così". Assurdo, per di più, che certe cose te le insegnino all'università: sembrano truffe, e forse lo sono davvero. Però così è. Così funzionano le cose in Italia.
Ma, dico io: la politica dovrebbe essere la vocazione, la missione più bella ed alta che si possa vivere: fornire le proprie forze, la propria intelligenza, il proprio sapere per risolvere i problemi, per vivere insieme. Civilmente, in armonia. Lottando, certo, su certi argomenti. Ma col punto fermo del bene comune davanti agli occhi.
Le elezioni dovrebbero essere un gioco da ragazzi. Uno splendido gioco. Si partecipa, si è liberi di esprimere il proprio pensiero, si vota, si contano i voti e poi si mette in moto la macchina politica.
Peccato. Niente di tutto questo. Intrighi, inciuci, giochi di potere. Strane logiche distorcono tutto, anche ciò che dovrebbe esser semplice e lineare. E, lo ripeto, a me sembra di vivere nel regno dell'assurdo.
Perché tutto questo? Fino a quando?

mercoledì 9 gennaio 2008

La spazzatura in tv


... Da non confondere con la "tv-spazzatura". Quella c'è sempre, sui nostri schermi non manca davvero mai. Però in questi ultimi giorni in tv c'è la spazzatura, quella vera, quella ammassata per le strade.
Si tratta di un problema serio, di una piaga che sta mettendo in ginocchio quasi per intero la Campania. Di qualcosa di cui noi che abitiamo lontano da quei luoghi ci accorgiamo solo adesso perché è la tv a dircelo.
Proprio su questa particolarità vorrei riflettere, non tanto sull'emergenza (per quanto gravissima) in sé: il modo in cui essa è piombata nelle nostre vite è una scintilla che mi permette di aprire un ragionamento più ampio sulla comunicazione e sull'informazione.
La nostra vita è fatta di concretezza, di gesti che compiamo, di azioni che (più o meno volontariamente) ci ritroviamo a fare. Non solo: risentiamo di molti stimoli esterni, provenienti in particolar modo dai mass media, che ci permettono di allargare le nostre percezioni, le nostre conoscenze.
Sappiamo tutto, o quasi, di ciò che appare sul piccolo schermo. Basta tenere la tv accesa per qualche minuto, senza neppure prestarvi troppa attenzione.
Il problema è che spesso e volentieri ci piove addosso una grandinata di informazioni pressoché inutili. Che spesso fanno leva sull'emotività, che ci colpiscono, che possono attrarre la nostra attenzione per un po'. Ma sostanzialmente inutili.
Deriva da ciò una sensazione poco edificante: si è portati a pensare che se una cosa non è in tv, allora non esiste.
Di quanti problemi, di quante emergenze, di quanti drammi non siamo ancora al corrente? Se la tv ci dice tutto, perché spesso certe notizie vengono manipolate, distorte, offuscate? Perché, alla fin fine, ci sembra di non sapere niente?

martedì 8 gennaio 2008

"... E adesso?"


Qualche giorno fa ho visto un bellissimo film, 'Baciami piccina', con Neri Marcorè e Vincenzo Salemme. Un film che mi sento di consigliare per i bellissimi contenuti che vi si trovano. Un film interessante perché narra la vita dell'Italia nei giorni dell'8 settembre. Un'Italia allo sbando, che si risveglia in un mondo in cui non sa più chi comanda e chi è comandato, chi è amico e chi nemico. E che, al contempo, muore di fame.
Come dicevo nel post dedicato alla Costituzione, tentare di immedesimarmi in quei giorni è un esercizio mentale che provo a fare ma che mai potrà farmi capire cosa potesse davvero voler dire vivere in quelle condizioni. 'Baciami piccina' ci prova, e talvolta ci riesce.
Oltre a mettere a nudo l'inutilità della guerra e la tragedia di un'ideologia orribile, soprattutto mette in risalto lo smarrimento di quei giorni. Racconta quelle facce stanche, quelle menti confuse, quelle pance vuote.
Ed è questo il punto che riesce più difficile immaginare. Sapere che la guerra è finita, che abbiamo voltato pagina, che si cambiava registro. Sì, ma le novità qual'erano? Cosa avrebbe riservato il domani? "... E adesso, che si fa?"
In quella confusione, tra la paura e le bombe, deve aver avuto la meglio la voglia di libertà. Come diceva Calamandrei "La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare". Mancava da troppo tempo, quel bene prezioso. Certo, a qualcuno interessava più avere un pezzo di pane. E pazienza se governava Tizio o Caio. Altri invece capivano che erano necessari entrambi. Anzi, più la libertà che il pane. Ed è a quegli uomini che noi dobbiamo tutto.
Forse dovremmo ricordarcene un po' più spesso, perché in tanti si sono sacrificati affinché la nostra società fosse libera ed organizzata. Purtroppo noto come la libertà ora ci sia, quanto basta diciamo. Abbiamo cibo, tecnologie, progresso. Ma è un'Italia, ahinoi, comunque allo sbando.

lunedì 7 gennaio 2008

Alla fine della festa...


Le feste di Natale sono finite. Ed io non so se è un bene o un male. Da diversi anni vivo un rapporto di "odi et amo" con questo periodo di feste. Non col Natale in sé.
Mi piace pensare al Natale anzitutto come festa religiosa. Ma, anche volendola staccare da questo contesto, adoro i suoi risvolti più semplici: le famiglie si riuniscono, c'è più voglia di stare insieme, c'è meno dispersione, più attenzione verso gli altri. Sarebbe bello se ogni giorno potesse essere così, ma per il momento, tanto vale accontentarsi.
Non mi piace, anzi odio, tutto il periodo che precede le feste: le luci per le strade, gli addobbi, le corse sfrenate nei centri commerciali per i regali. Una smania, come compulsiva, che colpisce svariate persone. E le allontana dal vero senso di questo periodo.
Dov'è scritto che solo a Natale si possano, anzi si debbano, fare regali? Perché dimostrare amicizia, affetto, amore verso le altre persone bruciando soldi per qualcosa di materiale? Quell'amicizia, quell'affetto, quell'amore non hanno prezzo. E non possono essere quantificati, comparati, scambiati dai regali.
Credo che, anche in questo caso, se si slegassero questi comportamenti, questi impegni obbligati dal periodo natalizio e li si diluisse su tutto l'anno forse vivremmo meglio. Riscoprendo ciò che è veramente importante.
Altrimenti alla fine della festa, di queste feste, rimarrà poco o nulla. Qualche regalo e qualche addobbo da rimettere a posto.

domenica 6 gennaio 2008

Che cos'è "Chiesa"


Mi stupisce vedere come spesso la Chiesa venga usata come una bandiera da difendere oppure come un mostro su cui puntare il dito. A seconda: dei "bigotti" nel primo caso, dei "mangiapreti" nel secondo.
Credo che su questo argomento ogni tentativo di categorizzazione sia errata: l'ambito è troppo vasto per poterlo definire, così come le persone (siano esse credenti o meno) difficilmente possono essere inscatolate in una parola che ne riassuma il punto di vista.
Eppure tanti credono di conoscerla, la Chiesa. Personalmente io faccio fatica. Benché cattolico, praticante, benché nel mio retroterra ci sia la Chiesa (perché quello è uno dei principali punti di riferimento), faccio fatica a capire che cos'è "Chiesa". Sino a dove arriva. Chi ne fa parte e chi no. Chi è dentro, chi è fuori, chi è pro e chi è contro.
Il mio interrogativo rimane aperto, e credo che così resterà a lungo. Ad ogni modo, per tentare di districare questo nodo, credo che ogni tentativo di definizione dipenda dalle percezioni che abbiamo delle cose. Delle immagini che uno ha di un determinato concetto. Di come lo si raffigura.
Ebbene, nella foto sopra è riassunta la mia personale idea di "Chiesa". Non ho scelto San Pietro, né ho scelto una chiesa, intesa come "costruzione", come edificio. Ho scelto l'uomo, gli uomini. Ed in particolare le mani. Senza dita ingioiellate, senza polsi color porpora, neppure mani giunte in preghiera. La mia idea di chiesa è diversa: è fatta di mani che si aiutano, si cercano, si toccano. Che invitano a rialzarsi, a riprendere il cammino, a dimenticare le fatiche.
Questa è l'immagine migliore che ho trovato in giro per la rete per esprimere questo concetto, l'idea che ho di "Chiesa".
Troppo semplificatoria, forse. Troppo facile, potranno dirmi quelli che la sostengono in tutto e per tutto così come quelli che la criticano. Ma trovo sia questa la sua missione ed il suo scopo. Ciò che deve fare nel mondo. Perché dietro la "Chiesa"... c'è una chiesa fatta di persone. Che anzitutto devono essere specchio dell'amore di Dio.
Se si riuscisse ad intenderla così, la chiesa, forse molte divisioni inutili potrebbero esser superate.

sabato 5 gennaio 2008

Insert coin


Ho sempre reputato l'economia come una branca del sapere parecchio arida, vuota, con la quale non avrei mai voluto aver nulla a che fare.
E invece mi sono ben presto reso conto che, vuoi o non vuoi, bisogna farci i conti. Perché l'economia si è fatta largo nell'ambiente umano, nella società. Più che la sua importanza, mi stupisce il suo modo di fare, così invasivo e freddo, che mal si accosta alla vita. Che al contrario è creatività, è imprevedibilità, è per sua natura incontrollabile.
Mi infastidisce questa ingerenza. Mi rattrista pensare che questa "mano invisibile" che è l'economia possa indirizzare in un senso o in un altro la vita di miliardi di persone.
Specialmente perché si tratta di una mano che tende a sgretolare tutto in nome del profitto. Che tutto ciò che incontra deve trasformare in oro. E pazienza se di mezzo ci sono persone, sensazioni, emozioni...
Ma ciò che più mi irrita notare come, inevitabilmente, quello spazio composto dall'umanità sia coinvolto in questo turbine. Viene travolto, all'inizio senza neppure accorgersi ma poi ne rimane frastornato. E nulla è come prima.
Ed eccoci allora lì ad ingrassare le tasche di quei pochi ometti che governano il mercato. "Insert coin", inseriamo monete. Come nei vecchi videogiochi. Così, quasi inconsapevolmente.
Poi però, se un attimo ci guardiamo attorno, ci scopriamo poveri. Notiamo come il nostro sapere, il nostro lavoro, la nostra vita valgano sempre meno. E dunque non sappiamo più cosa fare.
Ripeto: le mie conoscenze in materia sono praticamente nulle. I miei sono solo pensieri. Forse anche troppo semplici. Però, riguardo questi temi, noto un malcontento ed una impotenza così abissali che non possono non farmi riflettere.
Credo che la guida migliore in questo ambito sia il sano buon senso. Ammesso che esista ancora. La verità sta nel mezzo: non sono né per il capitalismo sfrenato, né tanto meno per il comunismo. L'economia è un abito così importante per la nostra società? Bene, allora che faccia qualcosa per la società. Che l'economia operi nella società senza stravolgerla, senza sfruttarla, senza farle perdere la bussola.
Non chiedo che gli imprenditori si mettano a fare quella beneficenza finta e pelosa. Ma che saggiamente si accorgano che c'è un mondo che vive, che pulsa fuori dai loro consigli di amministrazione. Che non devono spremerlo, ma aiutarlo.
Su questi temi c'è un'organizzazione che sta facendo molto (ma che non conosco ancora bene): si chiama Make Trade Fair. Una piccola bussola per questa società, e questa economia che si sono perse ormai da troppo tempo.

venerdì 4 gennaio 2008

La nostra Costituzione


Pochi giorni fa la nostra Costituzione ha compiuto sessant'anni. Solo negli ultimi mesi ho scoperto l'importanza e soprattutto la bellezza di questo testo.
Ho capito quanta fatica, quanto sudore, quanta voglia di libertà si celano dietro quei 139 articoli.
Facendo correre un po' l'immaginazione, ho tentato di immedesimarmi in quegli anni difficili dell'immediato dopoguerra, in quell'Italia allo sbando, in quel paese da ricostruire. Ed ho trovato fra le righe della Costituzione tutta la forza esplosiva della voglia di rinnovarsi, di ripartire, di ricominciare praticamente daccapo.
Eccoli, allora, quegli anni fantastici in cui "i piccoli miracoli" (di cui parlavo ieri) accadevano davvero. In cui destra e sinistra si tendevano la mano, ben sapendo che il loro lavoro superava le divisioni, gli spazi, i tempi.
Ho capito, inoltre, che anche dopo ben sessant'anni quei princìpi, quei valori, quella serie di diritti e doveri sono attualissimi tutt'ora. Certo, forse ci sarebbe bisogno di una "rinfrescata" alle pareti, ma l'intera costruzione regge benissimo.
Ne è venuta fuori una Bibbia che nulla ha a che fare con la religione. Un testo che guida, consiglia, indica una strada. Che non impone con la forza né con la coercizione.
C'è però qualcosa che, se penso alla Costituzione, mi lascia con l'amaro in bocca: vedere come, in tutti questi anni, essa sia stata dimenticata. Talvolta calpestata, se non maltrattata. In quegli articoli ci siamo noi, il nostro paese, il nostro modo di intendere la vita sociale. E allora perché in Parlamento si sono seduti e si siedono persone che di quella carta non sanno che farsene? Che pensano ad una politica tutta loro? Che non amano quel testo come meriterebbe di essere amato?
Forse hanno perso la bussola e non sanno che la nostra stella polare è lì. In quei 139 articoli.

P.S.: davvero interessante è il libro "La Costituzione" di Valerio Onida, edito dal Mulino. Un testo che spiega come, quando, in che Italia è nata la Costituzione.

giovedì 3 gennaio 2008

Ritorno al passato


Continuo sul solco tracciato dal post di ieri per ampliare leggermente l'argomento.
Nel ripensare a questo "galleggiare" tra voglia di conoscere e paura per ciò che ci è estraneo, è sorta in me questa domanda: se è vero che siamo una società continuamente proiettata nel futuro, allora come mai sempre più spesso c'è necessità di riassaporare qualcosa che viene dal passato per incardinarlo nel nostro presente?
Mi spiego meglio: ci siamo spinti così in avanti che forse un po' ci siamo persi, ed allora sentiamo quasi il bisogno di fare un percorso a ritroso. Giusto per ritrovare qualcosa che, mentre eravamo presi dalla corsa verso il futuro, avevamo perso per strada.
"Andava meglio quando andava peggio", dice il luogo comune. Non sono del tutto d'accordo, ma di certo in quel "peggio" c'è qualcosa che ci vogliamo portare dietro.
Chi più, chi meno, un po' tutti soffriamo di una malattia molto rara: la nostalgia. Malattia per la quale non c'è medicina. Ma c'è chi può fare qualcosa per alleviarla: il mercato. Il mercato può studiare la nostalgia e proporre una cura tutta sua.
Solo così si spiega il perché della riscoperta di certi oggetti che popolavano la nostra quotidianità, vecchi film, cose, sensazioni, sapori ormai dimenticati. Ultimo esempio di questo processo: il grande successo che sta riscuotendo la nuova 500 della Fiat.
Credo che ci sia una certa logica in tutto questo: in una civiltà che vuole il progresso ma che in qualche modo si è smarrita (e dunque ha paura), ecco che si sente la necessità di prendere qualcosa dal passato e, come detto, portarlo nel presente.
Perché c'è stato un periodo in cui tutto sembrava un piccolo miracolo. Oggi è tutto frammentato, veloce, immateriale. E forse c'è bisogno, in qualche modo, di fare ritorno al passato.

P.S.: su questo tema, una lettura molto interessante è "Memoria e comunicazione" di Roberta Bartoletti, libro edito da Franco Angeli.

mercoledì 2 gennaio 2008

Sapere o non sapere?


Capire le differenze tra un "prima" ed un "dopo", tra ieri e oggi. Considerare di quali strumenti disponiamo ora e non disponevamo in passato. Tentare di conoscere i cambiamenti che essi hanno apportato, in meglio oppure in peggio.
Sono questi argomenti che mi interessano tantissimo, ma su cui non sono ancora arrivato ad una conoscenza matura e, per quanto possibile, piena.
Il punto su cui mi blocco è sempre lo stesso: ci autodefiniamo società dell'informazione, del real-time, del sapere. Abbiamo mezzi di comunicazione che ci permettono di sapere in tempo reale cosa accade in posti che non sapevamo neppure esistessero. Aumentano gli "altrimenti possibili". La contingenza non è più, non solo, ciò che viviamo nel nostro quotidiano ma è anche ciò che ci dicono per telefono, ciò che leggiamo su internet, ciò che vediamo su YouTube.
Tutte cose che prima non c'erano ed ora ci sono. Ed è un bene che ci siano, aggiungo.
Se approfondisco il ragionamento, però, affiorano sempre problemi che non riesco a risolvere. Per capirci: nella società della conoscenza le paure aumentano proporzionalmente al numero di informazioni ricevute. L'insicurezza lentamente cresce perchè ciò che era sconosciuto piomba nella propria vita di colpo. Si ha percezione, rispetto a "prima", di un numero molto più elevato di sensazioni, di sensazioni, di vite non nostre. Visto che tutti abbiamo a che fare con la tv, coi cellulari, con internet, nessuno può salvarsi da questo "effetto collaterale" della comunicazione. L'"ignorante totale" non esiste, non può esistere in una società come la nostra.
Il punto è: siamo noi uomini in grado di gestire un numero così vasto di possibilità?
Prevale in questa ridondanza di informazioni la voglia di conoscenza o la paura? Come equilibrare le due cose?
Sono queste le cose che non ho ancora capito...

martedì 1 gennaio 2008

Io


Dieci anni fa. Come passa il tempo. Esattamente dieci anni fa, volendo copiare un'abitudine cara a mio nonno, decisi di iniziare a scrivere un diario. Da persona incostante e svogliata qual'ero (e quale, credo, sono tutt'ora), posi fine a quell'esperienza dopo meno di un mese.
Gli anni sono passati, ma quella voglia mi è tornata. Ed ho deciso di soddisfarla con questo blog. Un blog in cui racconterò di me ma soprattutto in cui tenterò di pormi e di porre domande. Uno spazio che spero possa diventare un terreno su cui far nascere modi nuovi di ragionare, di vie diverse per cercare le risposte, di semplicità quando tutto sembra aggrovigliato e di complessità quando appare troppo piatto.
Messi da parte i pregiudizi, i Tizio e i Caio, le divisioni di parte, cercherò altri modi per vedere e pensare il mondo.
Come ha scritto Baricco di un suo libro, anche questo spazio sarà principalmente un tentativo. Un tentativo di pensare. Scrivendo. Perchè ci sono tante cose che mi va di capire.
Spero che questi "pensieri a voce alta" risultino interessanti a chi li legge, che possano fornire spunti di riflessioni.
Che possano servire tanto a me quanto a chi li commenta.